di Angelo Nataloni e Giovanni Vinci
Alla Prima Guerra Mondiale parteciparono 240.000 alpini, i “figli dei monti” come li chiamava Cesare Battisti. Ma non tutti gli alpini erano effettivamente figli dei monti. Già qualche anno prima della Grande Guerra le zone di reclutamento erano state estese a quasi tutti i distretti montani della penisola ed in particolare l’Emilia Romagna, con la sua dorsale appenninica, contribuiva inviando i suoi ragazzi anche tra le penne nere, tanto è vero che già la campagna di Libia del 1911-12 vide alpini romagnoli impegnati tra le sabbie desertiche. Molti di loro spedirono a casa lunghe lettere scritte di getto dove troviamo tutta la tragicità della guerra, senza mediazioni romanzate o la revisione del tempo che attutisce e decanta. Ma i più erano sgrammaticati e non trovarono mai un editore. Qualcuno invece se l’è cavata meglio, anche con la penna da scrivere. E’ il caso di Mario Mariani da Solarolo (RA), una delle tante penne nere romagnole che partì per la prima guerra, ma che poi tornò “a baita” non prima di averci descritto quella sua esperienza militare in diversi libri.
Ma facciamo un passo indietro. Mario Mariani nasce casualmente a Roma il 26 dicembre 1883 durante un soggiorno d’affari del padre Domenico, un agiato possidente terriero romagnolo, accompagnato per l’occasione dalla moglie Angelina Mandroni in avanzato stato di gravidanza. Gli viene imposto il nome di Mariano, mai utilizzato se non nei documenti ufficiali come per esempio la motivazione alla medaglia d’argento di cui tratteremo più avanti. Trascorre l’infanzia a Solarolo, piccolo centro dell’entroterra ravennate, dove svolge i primi studi scolastici. Poi a 14 anni, nel 1897, si trasferisce con il padre a Roma dove frequenta l’Istituto Tecnico per Ragionieri, alternando la vita fra la capitale e il paese. Nella Romagna può conoscere e frequentare i principali esponenti della letteratura italiana; da Carducci a Oriani, da D’Annunzio a Pascoli, quest’ultimo carissimo amico del padre. Le sue doti e la vena letteraria di scrittore emergono nell’opera prima, una raccolta di poesie dal titolo Antilucano, pubblicata a Roma, poco più che ventenne, nel 1905. Erede di tradizioni familiari anarchiche e socialiste, tipiche di quel fazzoletto di terra senza reali confini chiamato Romagna, viene più volte denunciato dalle autorità per “incitamento alla disobbedienza” e schedato dalla Prefettura di Ravenna. Insofferente all’autorità paterna che lo vorrebbe con se in azienda, negli ultimi mesi del 1907 si trasferisce a Berlino come corrispondente dalla Germania per il quotidiano Il Secolo di Milano. Nel 1911 sposa a Londra la ballerina e suonatrice di piano Maria Biondi dalla cui unione nasce la figlia Mara. Nel 1914, allo scoppio della Grande Guerra, rimane ancora per alcuni mesi in Germania, poi rientra in Italia dove con i suoi articoli si schiera apertamente a fianco degli interventisti.
Nel 1915 pubblica il suo primo libro di grande successo La Casa dell’Uomo. Il 24 maggio anche l’Italia entra nel grande conflitto dichiarato l’anno prima: il nostro è un paese in cui una parte considerevole della popolazione è ancora ancorata ad una vita fondamentalmente municipale, frequenta poco la scuola, non sa scrivere, non usa regolarmente l’italiano e ha un’idea alquanto sommaria del “Bel paese”. E’ quindi facile comprendere come la maggior parte di loro si identifichi assai poco con le ragioni della guerra e la sentano piuttosto come l’ennesima imposizione anziché come un dovere. A tale proposito Mariani, più tardi, così scriverà:
“Al plotone sono arrivati due specie di soldati: quelli per cui la patria era il borgo e tutt’al più la provincia, risultato di dieci secoli di schiavitù, e quelli per cui la patria era il mondo, risultato di cinquant’anni di predicazione evangelica internazionalista.”
Con l’inizio del conflitto Mariani diviene corrispondente dal fronte per Il Secolo, scrivendo anche per Il Messaggero. Nei suoi articoli si alterna l’esaltazione per i nostri soldati, ma altresì qualche critica per i Comandi militari italiani, motivo per il quale viene spesso allontanato dal fronte e vede censurati alcuni suoi servizi. Nella primavera del 1916 viene definitivamente sollevato dal suo incarico di corrispondente perché non riesce ad entrare disciplinatamente nel ruolo istituzionale di mediatore tra gli alti Comandi e l’opinione pubblica.
In questo primo anno di guerra emerge nei suoi scritti il rammarico di essere e sentirsi un “imboscato civile mentre tanti giovani sono già assurti ad eroi nel nome della Sacra Patria”. Sempre nel 1916 pubblica il secondo libro di successo dal titolo Il ritorno di Machiavelli, nel quale esprime, senza censura, il suo pensiero politico e le proprie considerazioni sulla guerra europea. Nel maggio 1916, ma non è chiaro se per sua domanda dato che è già un “anziano” di 33 anni o per necessità militari, viene “finalmente” chiamato alle armi e destinato ad Intra sul Lago Maggiore, presso il Deposito del 5° Reggimento Alpini per l’addestramento militare. La vita da recluta è dura, ma rimane subito affascinato da quei soldati che come corrispondente aveva già conosciuto ed apprezzato sui vari teatri di battaglia. Nel luglio 1916, terminati i due mesi di istruzione, parte per il fronte assegnato al Battaglione “Tirano” del 5° Reggimento Alpini che è schierato sul fronte in Alta Valtellina. Passano pochi mesi di guerra e si guadagna una medaglia d’argento la cui motivazione reciterà:
“MARIANI Mariano, da Roma, sottotenente complemento reggimento alpini. – Ufficiale osservatore, percorreva instancabilmente la nostra linea durante forte bombardamento, e volontariamente prendeva parte a combattimenti. Essendo stato tagliato fuori dal nemico attaccante il suo osservatorio, egli si slanciava nella mischia, riuscendo a raggiungere i suoi uomini ed il materiale, impedendo che essi venissero catturati dall’avversario. Esempio di calma ed abnegazione. Col Caprile-Col Beretta-Monte Asolone, 11-16 dicembre 1917.”
Oltre alla medaglia arriva anche la promozione a caporale. A questo primo periodo del conflitto Mariani dedica due libri rappresentati da Sulle Alpi e sull’Isonzo (1916) e La neve rossa (sempre del 1916) dove il mito della bella morte e l’ineccepibile preparazione del nostro esercito vengono eccessivamente celebrati per non dire esaltati. Come un po’ fuori luogo ci appare anche la descrizione del soldato italiano stoicamente insensibile al dolore e votato al combattimento, ciò senza nulla togliere agli infiniti atti d’eroismo di cui furono protagonisti i nostri fanti ed alpini nel corso del conflitto.
Così scrive della nostra organizzazione e del morale delle truppe:
“L’equipaggiamento alle truppe è perfetto, è tedesco. Gli approvvigionamenti procedono con ordine, i dislocamenti con puntualità. Il morale delle truppe? Ottimo. Ho già detto che dominano due sentimenti: gaia spensieratezza e giovanile impazienza di menar le mani per farla finita al più presto possibile.”
Mentre questa è l’opinione sul generalissimo:
“In dieci mesi Luigi Cadorna ha creato dal nulla un formidabile esercito di milioni di uomini, lo ha esercitato, equipaggiato, nel tempo stesso in cui un’evoluzione dello spirito pubblico, dovuta agli avvenimenti politici, rendeva anche l’anima di questo esercito pronta a qualunque audacia e a qualunque sacrificio.”
La realtà storica è diversa. Le nostre truppe attraversarono i confini al suono delle fanfare, ma dopo le prime effimere vittorie l’entusiasmo scemò di fronte alla evidenza di una mancanza di organizzazione e di materiali perché c’erano pochi fucili, pochi cannoni, non c’erano le mitragliatrici, gli elmetti li comprammo dalla Francia (6 ogni 250 uomini) e non avevamo neppure le pinze per tagliare il filo spinato. Oggettivamente il giudizio di Mariani è un attimino troppo ottimista.
Ma il Mariani di queste due opere è decisamente un interventista che vede la guerra come uno scontro necessario contro un nemico da annientare oltre che come un modo per dimostrare il valore delle nostre armi, riscattando le sconfitte di Custoza, di Lissa e di Adua, frustranti per una generazione cresciuta nel culto di Roma e dell’eroismo garibaldino.
Per il suo titolo di studio viene scelto ed inviato al corso per ufficiali di complemento. Nel febbraio 1917 viene promosso caporalmaggiore e in agosto con la nomina a Sottotenente è assegnato al Battaglione “Val Brenta” del 6° Reggimento Alpini, quale comandante di plotone della 263ª compagnia.
Con questo reparto partecipa ai combattimenti sui fronti dell’Altipiano di Asiago, in Valsugana, a Monte Asolone, Col della Beretta, sul Panarotta, Cima d’Asta, Valle del Grigno, sullo Stelvio e con il grado di Tenente nel marzo 1918 alla difesa del Grappa. Sempre nel corso del 1918, pur essendo impegnato al fronte, pubblica Come ti erudisco…il fante, un opuscolo satirico sicuramente più leggero e scherzoso rispetto ai precedenti scritti, dedicato alla vita militare, ma sempre con un taglio patriottico-nazionalista.
Negli ultimi mesi del 1918 viene chiamato a far parte dell’Ufficio Propaganda della IV Armata (l’Armata del Grappa) per collaborare assieme ad altri intellettuali la redazione del giornale “La Trincea” distribuito gratuitamente sul tutto il fronte del Grappa fino al gennaio 1919. Della redazione fanno parte intellettuali dai nomi già noti e futuri famosi scrittori come Salvator Gotta, Eugenio Gandolfi, Gino Rocca, Ferdinando Paolieri, Michele Saponaro e addirittura Grazia Deledda; fra i caricaturisti Aroldo Borzagni e Giuseppe Maria Crespi. Il 4 novembre 1918 si conclude la guerra e nei primi mesi del 1919 il Battaglione “Val Brenta” viene sciolto e Mariani, promosso tenente, rientra alla vita civile di giornalista e scrittore trasferendosi a Milano, allora centro della Cultura italiana, dove ritrova i vecchi commilitoni del Grappa. Nello stesso anno da alle stampe il libro Sott’la naja-Vita e guerra d’alpini (Fig. 3), indicato dai critici come il migliore fra tutti quelli da lui scritti, dove ricorda gli ufficiali, gli istruttori, le esercitazioni, i feriti costretti alla vita di Deposito e nostalgici dei camerati al fronte. Con più sarcasmo rispetto ai precedenti scritti ci presenta una realtà guerresca differente, come questi due passaggi significativi che riassumono da un lato il rapporto tra il vino e gli alpini unitamente all’ironia tipica di questo corpo:
“E bere, bere, bere ! … Bere per dimenticare. Dimenticare quelli che ci hanno fatto del bene, dimenticare quelli che ci hanno fatto del male, dimenticare quello che ci piange nel cuore, quello che aspetta nel cervello, dimenticare il ricordo e la speranza, dimenticare quello che fu e che non tornerà mai più, dimenticare la vita e la morte all’attacco gli eroi del battaglione Tolmezzo? – Ragazzi c’è un comando austriaco, c’è delle botti e delle bottiglie, se arriviamo laggiù si beve – E una volta un soldato vi rispose: – Maggiore ! un’osteria ogni mezzo chilometro e noi andiamo a Trento.”
E dall’altro una fotografia tutto sommato corretta della condizione sociale del nostro esercito dopo Caporetto, dove pone l’accento sulla la posizione di mediatori dei sottotenenti e tenenti di plotone:
“Sono stati loro i veri maestri di vita sociale e nazionale dell’operaio e del contadino italiani, giunti alla guerra da estranei alla collettività nazionale, perché da sempre abituati a collocarsi e a sentirsi al di qua o al di là di essa: o chiusi nella dimensione arretrata e metastorica della comunità di villaggio o proiettati nell’utopia internazionalista. Di queste due specie di soldati era composto l’esercito chiamato alla guerra in nome di un interesse e d’un ideale nazionale mai conosciuti prima e dall’altra parte mai fatti conoscere.”
Sott’la naja è composto da dodici racconti di azioni vere o forse presunte impostati in modo da dare al lettore un approccio diverso della Grande Guerra, fermo restando che anche tra queste righe si può ancora leggere un’accentuata esaltazione del valore e dell’eroismo. La riflessione e la malinconia non attenuano la visione gloriosa della guerra. Tuttavia il Mariani cantore della Grande Guerra non è su posizioni tanto distanti da quelle di gran parte della cultura storica del suo tempo schieratasi a favore del conflitto. Mariani come il filosofo Giovanni Gentile per il quale “la guerra è congenita all’uomo e le cose del mondo si risolvono con la forza”. Mariani come Renato Serra. Mariani come Filippo Corridoni che in piazza urla “la neutralità è dei castrati”. Eppure loro non sono stati scordati. Ma vedremo poco oltre che c’è un perché.
Il giovane Mariani come anche il vecchio Oriani, un altro illustre dimenticato pure lui romagnolo di Casola Valsenio, si sente profondamente insoddisfatto dalle condizioni economiche e sociali di quell’Italia di inizio Novecento ed ipotizza un grande rinnovamento attuabile solo attraverso una guerra senza confini.
Mario Mariani crede fermamente nei valori più nobili e tradizionali della patria ritenendo che la guerra contro i tedeschi fosse sacrosanta e nello stesso tempo una opportunità da non perdere. Nel 1922 pubblica l’ultimo libro dedicato al primo conflitto mondiale I colloqui con la morte- Impressioni di guerra e novelle di trincea.
E qui finisce la storia di Mario Mariani e la Grande Guerra. Ma non quella di Mario Mariani scrittore perché poi continuerà con l’arte dello scrivere e sarà prima dell’avvento del fascismo, uno dei più letti d’Italia. Giornalista, traduttore, autore di romanzi, novelle e racconti, di opere filosofiche e politiche, Mariani sarà il narratore di una crisi che troverà forma strategica nei suoi “romanzi del piccone”, corrispettivo letterario di un sofisticato e originale pensiero della condanna.
Negli anni successivi Mariani si distinguerà prima per il suo fiero antifascismo, poi per un altrettanto fiero anticomunismo macchiandosi così di un peccato che la critica italiana del secondo Novecento, troppo spesso politicamente schierata, non gli perdonerà mai destinandolo di fatto all’oblio. Osteggiato dai fascisti prima e dagli antifascisti poi, nel novembre 1926 espatrierà in Svizzera per poi raggiungere la Francia dove pubblicherà i Quaderni dell’Antifascismo e Quaderni del volontarismo nei quali esprime chiaramente le sue idee politiche ed il giudizio negativo sul fascismo (più da un punto di vista sociologico che politico), ma anche sul comunismo di Marx. E da lì in Sud America, alternando 14 anni fra San Paolo in Brasile e Buenos Aires in Argentina, dove proseguirà comunque l’attività di scrittore e giornalista.
Ha più fortuna all’estero che non in Italia dove invece, come anticipato, dopo il secondo dopoguerra, gran parte della sua opera narrativa sarà largamente rimossa ed osteggiata, non tanto per il carattere rivoluzionario che la contraddistingue, ma soprattutto per la mancanza di considerazione sia da destra che da sinistra. Rimarrà in America Latina fino al 1947 quando con la famiglia rientrerà a Milano con ancora il suo bagaglio di idee immutate e di critica politica. Deluso e sfiduciato, deciderà allora di ritornare oltremanica. Nel giugno 1951 si imbarcherà con la famiglia da Genova alla volta di San Paolo dove morirà il 14 novembre dello stesso anno e dove tutt’ora è sepolto.
Alla Prima Guerra Mondiale, Mariani ha dedicato diversi libri, quattro per la precisione, nelle cui pagine non ci sono equivoci sul modo in cui lo scrittore romagnolo si atteggia nei confronti di quell’avvenimento epocale. Esaltazione dell’eroismo dei soldati italiani e inviolabilità della patria. Idee però che disturbano quella fitta pattuglia di storici italiani che con sempre maggiore insistenza tende solo a condannare la Grande Guerra come un grossolano e fatale errore frutto d’imprudenza e di megalomania, anziché ricordarla anche come a avviene in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti e come avveniva anche in Italia (non dimentichiamolo) nella prima parte del secondo dopoguerra, come uno scontro necessario per frenare da un lato l’imperialismo Austro-Tedesco oltre che, nel nostro caso, per chiudere definitivamente e positivamente il capitolo del Risorgimento.
Tuttavia di lui è difficile dare un giudizio chiaro e misurato, anche solo in rapporto al periodo della Prima Guerra Mondiale, soprattutto alla luce di quella inquietudine sociale estremamente dinamica in Mariani.
Rino Alessi nella premessa del suo Dall’Isonzo al Piave, lettere clandestine di un corrispondente di guerra scrive che Mariani è un
“sovversivo nel senso più lato della parola, incapace cioè di assuefarsi a qualsiasi disciplina, non gli era riuscito di convincersi che l’Ufficio Stampa del Comando Supremo, istituito pochi mesi dopo l’entrata in guerra era, pur con i suoi aspetti propri, un servizio di carattere militare, tenuto a una sua disciplina e a talune regole piuttosto rigorose”.
Mario Isnenghi nel suo Il mito della Grande Guerra lo definisce uno scrittore di consumo ed ambivalente, al pari di Papini, Malaparte e Marinetti. Che comunque sono una buona compagnia.
Noi concludiamo allora in modo assai semplicistico. Mario Mariani è stato durante la Grande Guerra un buon alpino e un uomo esponente del suo tempo.