Augusto Frascari, Luigi Roffi e Umberto Zanelli, caduti “in missione di pace” a Murmansk e in Anatolia

di Giacomo Bollini.

Il centenario della Grande Guerra è finito da qualche tempo. I riflettori su questo evento storico si stanno ormai spegnendo, dimostrando quanto l’attenzione mediatica sui fatti storici sia solo modaiola e approssimativa. Gli anni subito seguenti la fine del conflitto sono invece non solo estremamente interessanti ma a dir poco fondamentali per la storia d’Italia e d’Europa poiché è nei mesi subito successivi alla fine del conflitto, mentre ancora risuonava nell’aria l’eco delle campane a festa per la vittoria, che si buttavano le basi per i totalitarismi e per una guerra mondiale ancora più devastante. A Versailles i “grandi capi” dei paesi vittoriosi si “dilettavano” con riga e squadra a tracciare i confini dei “nuovi” stati che emergevano, sia nell’est Europa che nei Balcani, ma soprattutto nel Medioriente. I trattati di pace, scritti con le mani serrate di rabbia di chi “voleva farla pagare” agli sconfitti causarono più danni che altro. La tanto sbandierata “autodeterminazione dei popoli” propugnata dal presidente americano Wilson che aveva fatto entrare in guerra gli Usa dando alla guerra una nuova prospettiva politica, le grandi democrazie contro i vecchi imperi oppressori di popoli, si dimostrò un’iniziativa approssimativa e mal gestita che fece più danni che altro.
L’Europa del 1919, 1920 fumava ancora di cannonate ed esplosioni. In molti paesi si combattevano guerra durissime nelle quali “patrioti”, politici o semplici avventurieri vedevano la possibilità di ottenere di più o di fare giustizia. La situazione precaria sul vecchio confine russo non aiutava affatto. La Russia era ancora preda della guerra civile fra Bianchi e Rossi. Moltissimi ex prigionieri di guerra di diverse nazionalità erano ancora sul suolo russo a combattere per l’una o l’altra parte. Si combatteva in Ungheria, impegnata in una guerra contro la Romania per rettificare il confine fra i due stati. Si combatteva in Polonia dove non era ancora chiaro che spazi e che territori il nuovo stato polacco avrebbe dovuto occupare a scapito della Russia e della Germania. Si combatteva nei paesi baltici che tentavano, nel disinteresse delle élite europee, di creare degli stati indipendenti. Germania ed Austria erano percorsi da malcontento e disperati: il blocco navale alleato continuava ancora nonostante il cessate il fuoco. Frequenti erano gli scontri, ovunque, fra gruppi armati delle cosiddette minoranza, ex combattenti dell’esercito regolare e gruppi paramilitari di “autodifesa” sorti spontaneamente, i cosiddetti Freikorps (che erano spuntati come funghi anche in Polonia e nei paesi baltici, dove le minoranze tedesche stavano reagendo al nascere dei nuovi stati). Non è un caso che in questi Freikorps tedeschi militarono alcuni dei più famosi futuri gerarchi nazisti. Ma soprattutto si combatteva nell’ex Impero Ottomano. Al tavolo di pace i grandi capi si erano dilettati a sforbiciare qua e là, spesso arbitrariamente, territori del vecchio impero e dando un’implicita via libera alla Grecia nel realizzare i propri fini espansionistici nella penisola anatolica. La guerra fra Grecia e Turchia assunse caratteristiche gravide di un futuro terribile: genocidi, rappresaglia sulla popolazione e disinteresse da parte dei cosiddetti vincitori. L’attenzione della vecchia Europa, certamente ancora impegnata a leccarsi le ferite, era nello spartirsi le fette di questa torta. Queste guerre che percorrevano in lungo e in largo diversi stati vennero definite da Churchill in maniera sprezzante: “La guerra dei giganti è finita: sono cominciate le guerre dei pigmei”. Una frase che ben riassume il pensiero delle élite politiche europee su quanto stava accadendo.
La beffa volle che in queste guerre “dei pigmei” morirono anche molti soldati dei paesi vincitori, inviati in “missione di pace” in questi paesi turbolenti.
A tutti gli effetti diversi corpi militari francesi, inglesi ed italiani vennero inviati in Germania, Russia e Turchia a fungere da pacificatori, come precursori dei moderni caschi blu. Di fatto si trattava di tentativi di allungare le mani su ulteriori fette di torta senza intromettersi troppo in queste dispute che, come si è visto, non interessavano per nulla.

beltrame murmansk
Casi esemplari furono i corpi di spedizione in Russia a sostegno dei Bianchi contro i Rossi bolscevichi. Come dice giustamente lo storico Robert Gerwharth, il miglior studioso di questo periodo, “l’impatto delle forze militari alleate sull’esito della guerra civile russa fu limitato, in quanto esse non furono attivamente coinvolte in nessuna delle principali battaglie, e gran parte dell’aiuto materiale che fornirono ai Bianchi andò sprecato a causa dell’inefficienza e della corruzione”. I vestiti venivano venduti al mercato nero e il liquido antigelo per glia automezzi spacciato come succedaneo delle bevande alcoliche nei bar.

dal piroscafo czar
Una foto delle coste russe fatta da un soldato italiano da bordo del piroscafo Czar, poco prima dello sbarco a Murmansk.

Anche gli italiani mandarono un proprio corpo di spedizione in Russia. Noto spesso come il Corpo di spedizione italiano in Murmania, questo contingente militare italiano era stato inviato già nell’agosto 1918, all’interno di una spedizione alleata, nella regione della Murmania, nella Russia Settentrionale, per contrastare prima i tedeschi che stavano spadroneggiando nella Russia ormai fuori dai giochi, paralizzata dalla rivoluzione e prostrata dalle durissime condizioni di pace imposte dal trattato di Brest Litovsk, e poi i russi bolscevichi. Già nell’agosto 1918, nel trasferimento via mare tra Newcastle e Murmansk (dove arrivarono il 2 settembre) 15 soldati italiani morirono a causa dell’influenza spagnola. Poteva davvero apparire come una morte assurda ed inutile.
Il Contingente italiano, comandato dal colonnello Sifola, era composto dal 4º battaglione del 67º reggimento fanteria della brigata Palermo, dalla 389ª compagnia mitragliatrici, dalla 165ª Sezione Carabinieri reali, e da un reparto del Genio, per un totale di circa 1.350 uomini.

La missione terminò il 27 agosto 1919, e il corpo di spedizione fu richiamato in Italia dal Governo Nitti.
Nelle operazioni del fronte sud partecipò con valore anche la “Colonna Savoia”, della forza di una compagnia, che, partita da Kola il 5 aprile 1919, giunse ad Ozosovero il 4 maggio, ed il 21 ebbe il ruolo principale nell’attacco di Medveja, di Gora e di Povienetz contro i bolscevichi. In quel periodo nella regione di Vladivostok anche un altro Corpo di spedizione italiano combatté contro le truppe bolsceviche.
Non furono questi due gli unici corpi di spedizione italiani nella Russia della guerra civile.

mappa2
Un altro Corpo di Spedizione partì dalla concessione italiana di Tientsin (in Cina, dove l’Italia aveva possedimento coloniale fin dal 1901, come ricompensa per la partecipazione del Regio Esercito, con l’invio di un contingente, alla pacificazione della Cina pervasa dalla guerra dei Boxer. Il Possedimento venne mantenuto fino al 1943) Qui, insieme agli italiani ex soldati dell’Imperiale e regio Esercito austro-ungarico inquadrati nella cosiddetta Legione Redenta di Siberia, combatté nella primavera e nell’estate 1919 per mantenere attiva la ferrovia transiberiana fino in Manciuria; la Transiberiana era indispensabile per approvvigionare i russi “Bianchi” contro i Rossi.
Il contingente italiano destinato in Manciuria, comandato dal Colonnello Fossini Camossi, era costituito da un battaglione di fanteria, da una sezione di Carabinieri reali, e da una sezione di artiglieria da montagna. Giunse a Vladivostok, sfidando la minaccia sottomarina tedesca, il 17 ottobre 1918, venendo inquadrato ufficialmente in una Divisione cecoslovacca.
Il 17 maggio 1919 la divisione cecoslovacca si scontrò con sei reggimenti di fanteria bolscevica, e occupando Rubenskey. A questi combattimenti presero parte anche i soldati italiani. Il 1º giugno parteciparono anche al combattimento di Alexejevska, e alla difesa della testa di ponte sul Leiba. Anche questi uomini furono richiamati in Italia nell’agosto 1919.
Non esistono dati precisi sulle perdite dei contingenti italiani in terra russa. Sfogliando però le pagine del volume I morti della provincia di Bologna nella guerra MCMXV-MCMXVIII, edito a Bologna dalla Tipografia Paolo Neri nel 1927 a cura dell’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari, sede centrale di Bologna, è emersa la storia dimenticata di un bolognese caduto in Russia. Negli albi d’oro dei caduti della Grande Guerra questi morti non sono conteggiati. Si tratta di un’iniziativa del tutto personale dell’Ufficio notizie di inserire nel conteggio di questo libro anche altri uomini per i quali le volontarie che vi lavoravano si prodigarono a cercare informazioni da dare alle famiglie preoccupate.
La storia che ne emerge è del tutto sorprendente. È la storia di Augusto Frascari, bracciante celibe, classe 1899 (non si sa nemmeno il mese e il giorno dai dati del “Libro Verde”), di Antonio, soldato nel 67mo reggimento Fanteria, nato a Castel San Pietro nel 1899, dimorante a San Lazzaro di Savena, morto per ferite a Normania (Russia) il 30 giugno 1919. Fa quasi sorridere amaramente che il luogo di morte sia trascritto male: Normania invece che Murmania (in altri documenti a volte, addirittura modificato i Murmuria), ma non deve sorprendere. Sono molteplici gli errori di trascrizione dei luoghi di morte dei soldati, caduti spesso su monti dai nomi slavi, sul fronte dell’Isonzo, storpiati in italiano e semplicemente interpretati da un foglio scritto a mano: nomi spesso impronunciabili, con tante consonanti dure, sorde…k, h, r, z… tutte vicine. Decisamente troppo.

foglio matr. frascari tagliato
Frascari ottenne per l’azione di guerra in cui perse la vita una medaglia di bronzo al valor militare che ci aiuta a capire meglio quanto la sua permanenza nella Russia devastata dalla guerra civile non sia stata un “soggiorno di piacere”, ma un’esperienza di guerra vera e combattuta. Così recita la motivazione: “Appartenente ad una linea di nostre piccole guardie, durante un breve ripiegamento di questa sulla linea di resistenza, dando prova di singolare valore, prima di lasciare il posto volle rispondere ancora per una volta col fuoco della propria arma a quello dei nemici, che on buon numero avanzavano, e nel coraggioso suo atto lasciò la vita, colpito da una granata avversaria”. Il tutto in data 30 giugno 1919, in località Kapselga (Nord Russia). Ironia della sorte non esiste un luogo al mondo con questo nome, sintomo dell’ennesima storpiatura di un nome impronunciabile e difficile da assimilare per gli italiani. Una ricerca in archivio di stato ha permesso di saperne qualcosa di più su Augusto Frascari. Il suo foglio matricolare riporta diversi dati: riusciamo così a dare una data di nascita certa a questo soldato, 12 novembre 1899, e una sommaria descrizione: era alto 1.57 e aveva i capelli neri e lisci. Sapeva leggere e scrivere e di mestiere era telegrafista (una specializzazione che stranamente non gli permise un arruolamento nel genio telegrafisti). Aveva già avuto esperienza di guerra sul fronte italo-austriaco dal novembre 1917, come molti altri ragazzi del ’99 come lui. La brigata Palermo, in cui era arruolato, aveva combattuto, e pure duramente, fra Grappa e Piave, durante la battaglia del Solstizio. Frascari, in data 11 febbraio 1918, riportò una ferita agli arti inferiori in “località sconosciuta”. Incrociando i dati dei riassunti storici della brigata Palermo possiamo localizzare il suo ferimento in zona Grappa, Val delle Mure, sul rovescio della dorsale Grappa-Solaroli-Col dell’Orso. Il suo imbarco per Murmansk è datato fra il 13 e il 30 ottobre 1918. Sul foglio matricolare è riportato come luogo di morte “ferrovia Pietrozavoski”, un’indicazione altrettanto criptica che Kapselga, ma che ci permette almeno di collocare Frascari poco più a sud di Murmansk, nei dintorni del lago Onega, vicino a Petrozavodsk, dove effettivamente si combatté, lungo la linea ferroviaria che portava diretta a Mosca. L’indicazione è imprecisa ma sufficiente a dare un quadro generale in una situazione alquanto fumosa come questa.

motivazione frascari tagliata
Qualche piccolo approfondimento per ricostruire e dare dignità a un caduto dalla storia dimenticata. Un soldato dalla storia singolare, caduto lontano da casa, a combattere una guerra ancora più distante concettualmente da quella che aveva già combattuto sul fronte italiano. Una storia assurda, una morte assurda quali solo la guerra può causare: la vicenda di un soldato che nonostante tutto fece il suo dovere fino in fondo, a migliaia e migliaia di chilometri da casa, combattendo un nemico del quale, probabilmente, non conosceva neanche le motivazioni.
Del tutto simile la storia anche di Luigi Roffi, un altro caduto la cui storia di intreccia con le vicende del primo dopoguerra. Luigi Roffi è a sua volta riportato sul “Libro verde”, ma il suo foglio matricolare ci aiuta, ancora una volta, a saperne di più. Classe 1900, era stato richiamato in tempo di guerra, a marzo 1918, anch’esso, ironia della sorte, nella brigata Palermo, precisamente nel 68° reggimento fanteria. A marzo 1919 era stato ricollocato a riposo. Roffi non aveva visto la guerra da vicino e probabilmente avrà pensato di aver scampato un bel pericolo. A ottobre 1919 viene però richiamato, probabilmente per completare quel periodo di ferma regolare che ogni suddito italiano doveva fare. Fu collocato nel 34° reggimento della brigata Livorno e spedito, via mare, con imbarco a Napoli in data 13 gennaio 1920, nella turbolenta Turchia.

foglio matr roffi tagliato

Qui sbarcò a Scalanova, l’odierna Kuşadasi. Kuşadası oggi è una nota località balneare turca che sorge sulla costa occidentale che si affaccia sul Mar Egeo. Punto di partenza per chi vuole visitare le rovine classiche nella vicina Efeso, è anche una delle mete favorite per le crociere. Nel 1920 era uno dei porti controllati dalle forze dell’Intesa durante la cosiddetta guerra greco-turca. Il trattato di pace umiliante imposto da Versailles all’impero ottomano aveva portato ad una grande ribellione, guidata da Mustafa Kemal. La ribellione era indirizzata verso la Grecia, nemico atavico dell’impero ottomano, che aveva beneficiato di grandi vantaggi territoriali a scapito della Turchia. Vari reparti alleati erano sbarcati in Turchia per creare delle zone di sicurezza nella penisola anatolica. Rari furono gli scontri in questo caso. L’Italia, che nel 1911-12, con la guerra di Libia, aveva combattuto contro l’impero ottomano e aveva messo le mani sulle isole del Dodecaneso, dirimpetto alla penisola anatolica, non si fece sfuggire l’occasione per reclamare la propria fetta di torta, inviando un proprio contingente in Anatolia. Venne creato così il Corpo di spedizione italiano in Anatolia.
Componevano questo corpo di spedizione il 33° e 34° reggimento fanteria della brigata Livorno, il XXVI Battaglione bersaglieri, il IV Battaglione bersaglieri ciclisti, squadroni di cavalleria del 20º Reggimento “Cavalleggeri di Roma” e del 18º Reggimento “Cavalleggeri di Piacenza”, il XL Gruppo artiglieria da montagna e il LII Battaglione genio, oltre a varie altre unità di sussistenza e sanità. Al comando di questo corpo si alternarono cinque alti ufficiali fra i quali il più noto generale Luigi Bongiovanni, comandante del famoso VII corpo d’armata sul massiccio del Kolovrat durante la battaglia di Caporetto. La presenza militare italiana in Anatolia ed Adalia non visse momenti di alta tensione. La vicinanza a Smirne, dove si consumò una vera e propria tragedia umanitaria a seguito delle violenze di entrambi gli schieramenti, non fu particolarmente sentita dai soldati italiani. Parte della flotta italiana del Dodecaneso partecipò alla parziale evacuazione della popolazione di Smirne di etnia greca a seguito della conquista della città da parte delle truppe turche e della conseguente operazione di “pulizia etnica” intrapresa. Le giornate di Smirne furono raccontate con dovizia di particolari da vari inviati di guerra fra i quali un giovane Ernst Hemingway che raccontò del disinteresse da parte delle navi alleate alla rada nel porto nei confronti della popolazione di origine greca ammassatasi sulle banchine nella speranza di ricevere assistenza, soccorso e rifugio.
A Scalanova, il 25 luglio 1920, trovò la morte, per enterocolite tubercolare Luigi Roffi figlio di Cesare e Adelina Querzè, nato a Pianoro, e dimorante a Casalecchio di Reno, alto 1,66 e di mestiere contadino. Un’altra vittima in tempo di pace per cause di guerra. Un altro lutto per una famiglia bolognese che sperava in una permanenza sicura del proprio caro in Anatolia; del resto la guerra era finita.

carta turchia
In Anatolia perse la vita anche un altro bolognese, Zanelli Umberto, del fu Vincenzo, soldato nel 20 reggimento Cavalleggeri, nato ad Imola il 4 ottobre 1894, dimorante ad Imola, morto per malaria a Hotsharly il 16 agosto 1919. Operaio. Celibe. Purtroppo non ci è stato possibile trovare il foglio matricolare di Umberto Zanelli e dare qualche informazione in più sul suo conto. Hotsharly, come era successo per Kapselga, luogo di morte di Augusto Frascari, non risulta il nome di nessuna località anatolica: ennesimo errore di trascrizione che priva un caduto di un luogo di morte e di una storia da raccontare.
Né Augusto Frascari né Luigi Roffi né Umberto Zanelli risultano sepolti in Certosa né in nessun altro cimitero del bolognese. Probabilmente sono rimasti là, inumati dove sono caduti, lontano da casa, in tempo di pace, a seguito di una morte assurda. Tre famiglie bolognesi non hanno avuto nemmeno una tomba su cui piangere il proprio caro caduto. Di nessuno di loro abbiamo rintracciato una foto. Rimangono, per ora, volti sconosciuti, caduti di una guerra lontana e dimenticata.
Storie amare, dal sapore di beffa. Tre storie da ricordare per non dimenticare quanto anche il tavolo della pace di Versailles e alcune decisioni politiche avvenute durante la cosiddetta “pace”, furono causa di morte e disperazione per la popolazione italiana, ma soprattutto per quelle lontane popolazioni “di pigmei”, come le chiamò Churchill, che combattevano, lottavano e morivano nell’indifferenza dell’occidente e dei paesi vincitori, rei delle loro imposizioni fatte a tavolino nella più totale cecità. Molti dei problemi che scaturirono o che non furono mai affrontati alla fine della Grande Guerra perdurano ancora oggi. Ma questa è un’altra storia.

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