Don Adamo Peppi: il cappellano bolognese del 6° reggimento bersaglieri

di Giacomo Bollini e Domenico Alvisi

Durante la Grande Guerra a Bologna, come è noto, avevano sede diversi reparti militari: il distretto, decisamente popoloso, aveva dato vita, ad esempio, a diversi reggimenti di fanteria. Dal primigenio 35° che componeva col 36° (che aveva sede a Modena) la brigata Pistoia, già durante le primissime fasi del reclutamento in vista del fatidico 24 maggio, era nato il 119° fanteria che col 120° componeva la brigata di Milizia Mobile a cui venne dato il nome di Emilia. Ma non finì qui. Le necessità del conflitto fecero sì che i distretti generassero una nuova serie di brigate composto da reggimenti col numerale piuttosto alto, oltre il 200°. Fu così che sempre dai depositi del 35°, a Bologna, nacque il 229° che con il 230° andò a comporre la brigata Campobasso.

Questa è storia nota.

A Bologna però aveva sede, già da tempo, un reggimento di bersaglieri che aveva legato il suo nome, oramai con esperienza ultra decennale, al capoluogo felsineo: si trattava del 6° reggimento bersaglieri, un reparto storico dei fanti piumati.

Una bella foto di bersaglieri italiani

Se la recente storiografia ha dato voce, in parte, ai soldati delle brigate Pistoia ed Emilia, grazie al lavoro di storici che ne hanno costruito il curriculum bellico attraverso le memorie sparse dei reduci, nessuno si è mai approcciato alla ricostruzione dell’esperienza bellica del famoso 6° bersaglieri. Questa mancanza o dimenticanza, colmata solo parzialmente, per quanto riguarda la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, con il libro di Umberto Salvatores “Bersaglieri sul Don”, rimane un vero e proprio mistero. Il 6° bersaglieri, difatti, fu uno dei reggimenti dei fanti piumati ad essere maggiormente utilizzato e decorato durante il conflitto. Fra i suoi ranghi si annoverano diversi uomini dalle storie dense di significato, sia all’interno stesso del conflitto sia per quanto riguarda il dopoguerra. Basti pensare, ad esempio, ai numerosi irredenti che vennero arruolati, sotto falso nome, fra i suoi ranghi, o all’illustre avvocato Giulio Giordani, poi grande mutilato e protagonista del turbolento dopoguerra bolognese, quando perse la vita nel famigerato “assalto a Palazzo d’Accursio”. Fra i caduti del 6°, inoltre, si annoverano anche due medaglie d’oro al valor militare: il bolognese Giacomo Pallotti e il ravennate (di Castel bolognese) Francesco Rossi, caduti entrambi sull’altipiano di Asiago.

Sembra incredibile, ma nonostante un cursus honorum bellico di tutto rispetto e una messe di soldati decorati e “famosi”, nessuno ha mai ricostruito la storia del 6° bersaglieri di Bologna. Dapprima schierato sull’alto Isonzo, Monte Ursic, Planina Za Kraju, monte Ravelnik, Monte Javorcek, Monte Cukla; poi sul Carso, Monte Veliki, Monte Pecinka; poi sulla Bainsizza, Monte Semmer, Monte Oscedrih; poi Altopiano di Asiago, Monte Tondarecar, Monte Badenecche… nomi evocativi di grandi battaglie e di aspri scontri.

Un accampamento di bersaglieri italiani

Un piccolo tassello della storia del 6° bersaglieri è emerso recentemente, quasi per caso, come spesso accade, mentre si cercava la storia di un altro militare. Si tratta della storia del cappellano militare del 6°, Don Adamo Peppi. Un nome misconosciuto dietro al quale, però, si cela la vicenda storica di un uomo di fede che compì fino in fondo il suo dovere andando ben oltre quanto richiesto ad un semplice cappellano militare.

Una rapida ricerca ci ha dato un’ulteriore chiave di lettura della storia di questo cappellano. Oltre che servire in un reggimento di stanza a Bologna in tempo di pace, era lui stesso bolognese, essendo nato a Casalfiumanese, un piccolo paese sui colli di Imola, nel 1888. Il suo curriculum di cappellano militare fu tutto nel 6° bersaglieri, dal 2 febbraio 1916 fino alla fine della guerra.

Con le mostrine cremisi del 6° Don Adamo Peppi visse mesi davvero intensi. Possiamo dire che lui stesso, inoltre, andò ben oltre il suo semplice “dovere” di cappellano militare mentre prestava servizio coi fanti piumati. Negli annali dell’Istituto del Nastro Azzurro, infatti, possiamo rintracciare ben due decorazioni al valore da lui meritate. La prima risale all’azione sostenuta dal 6° reggimento bersaglieri, insieme al reggimento “gemello”, il 12°, con il quale componeva la cosiddetta 1° brigata bersaglieri. L’azione si svolse fra il 1° e il 2 novembre 1916 nel pieno della nona battaglia dell’Isonzo. Questa battaglia è nota anche come la terza spallata carsica: dopo la sesta battaglia dell’Isonzo che portò gli italiani alla conquista di Gorizia, Cadorna architettò queste tre offensive sul Carso, la porta d’accesso a Trieste. Si confidava che dopo la sconfitta subita a Gorizia nell’agosto 1916 sarebbero bastate delle semplici spallate” sul Carso, per l’appunto, per avere ragione una volta per tutte della resistenza imperiale sul basso Isonzo. Le offensive, però, per quanto portarono a conquiste territoriali, non spezzarono la linea difensiva austro-ungarica. Se vi fu una “spallata” che si avvicinò all’obiettivo, quella fu la terza, la nona battaglia dell’Isonzo. Nel settore nord del Carso, dove la linea austriaca si snodava sul monte Veliki Hribach, sul Pecinka, sul Pecina e intorno alle case del diroccato paese di Lokvica, le forze italiane riuscirono a compiere un balzo in avanti importante. A conquistare la vetta sterposa e brulla del monte Pecinka furono le truppe piumate della 1° brigata bersaglieri, comprendente il 6° e il 12° bersaglieri. Ancora oggi sulla cima di questo piccolo monte spicca, semidistrutto dall’incuria, un piccolo monumento in ricordo di quell’azione vittoriosa. Fa quasi impressione, vedendolo oggi, come questo monte, la cui mole è davvero modesta, sia stato teatro di scontri così duri e sanguinosi.

Il malconcio monumento in vetta al Pecinka che ricorda la prima brigata bersaglieri (6° e 12° reggimento) che la conquistò nel novembre 1916

Le assurdità della guerra sul Carso. L’azione vittoriosa fruttò diverse decorazioni ai fanti piumati. Fra i decorati anche Don Peppi: una medaglia di bronzo al valor militare. Nonostante la motivazione ufficiale riporti erroneamente il nome Adelmo, si tratta del “nostro” Don Adamo Peppi: “”Durante l’attacco di forti posizioni seguiva il comando del reggimento, dimostrando slancio e risolutezza. Sulle posizioni conquistate, fortemente contrattaccate dall’avversario, dava prova di alto spirito di abnegazione e sprezzo del pericolo, animando i combattenti con la parola e con l’esempio e prestando soccorso ai feriti, sotto il violento bombardamento dell’artiglieria nemica. Monte Pecinka, 1° – 2 novembre 1916”. Passarono circa 6 mesi e Don Peppi fu nuovamente presente nell’elenco dei decorati del reggimento. Il teatro di questa sua nuova azione meritevole di una nuova decorazione, ancora di bronzo, fu la dorsale fra il Monte Vodice e il Monte Santo. Oggi lungo questa dorsale si snoda una comoda passeggiata, esposta ed assolata. Su questo bastione, largo come il petto di un lottatore, si combatté duramente fra la decima e l’undicesima battaglia dell’Isonzo. A picco sul fiume, questi due monti erano la chiave d’accesso principale all’altopiano della Bainsizza. All’attacco di questi monti e della selletta che li collegava, furono lanciati reggimenti su reggimenti. Anche il 6° bersaglieri dovette dare il proprio contributo di sangue a questa durissima battaglia. Il combattimento permise, tramite un’azione combinata sui vari versanti d’attacco, di occupare il Vodice. Il Monte Santo cadde solo con la battaglia successiva, l’undicesima dell’Isonzo. La motivazione del bronzo meritato da Don Peppi riassume in pieno quei giorni di sofferenza: “Per dieci giorni consecutivi e durante vari assalti eseguiti dal reggimento contro forti posizioni, per più volte, sotto il violento tiro di artiglieria e le raffiche di mitragliatrici nemiche, si recava volontariamente su posizioni avanzate a rianimare i reparti fatti segno a sensibili perdite, a soccorrere i feriti ed a raccogliere le salme dei caduti, dando prova di abnegazione, sprezzo del pericolo e valore. Già distintosi in precedenti combattimenti. Monte Vodice – Monte Santo, 20-30 maggio 1917”.

Don Peppi in divisa

Anche in questo caso, sembra davvero uno scherzo del destino, la motivazione di Don Peppi riporta un nome sbagliato: Adenio e non Adamo. Ma non ci sono dubbi sul fatto che si tratti proprio di lui.

Don Peppi rimase al 6° bersaglieri fino alla fine del conflitto. Finito il conflitto rimase comunque a disposizione dell’ordinariato militare. Lo troviamo in servizio negli ospedali militari bolognesi fino al 22febbraio 1920, data del suo congedo definitivo dal grigioverde.

La sua vita sacerdotale dal Primo dopoguerra alla morte è riassunta brevemente nell’articolo di Alessandro Righini nella rivista online “Lo Spekkietto”, giornale online della comunità di Casola Valsenio.

“Al termine del conflitto, dopo alcuni anni di servizio presso parrocchie della zona Imolese, fu nominato parroco a Valdifusa di Casola Valsenio, una parrocchia di montagna a quei tempi molto popolata di famiglie di mezzadri e di piccoli proprietari terrieri. Un territorio impervio senza strade di accesso facilmente praticabili, lontano dai più elementari servizi.

Già allora si distinse per lo zelo con cui svolgeva la sua missione al servizio di quella povera comunità parrocchiale.

In quella sede restò dal 1923 al 1926 per poi essere comandato ad assumere l’incarico di Parroco a Sassoleone fino al novembre 1936, data in cui ricevette la investitura di Arciprete a Casola Valsenio in sostituzione del Sacerdote Don Ferruzzi trasferitosi nel Lughese.

Da questo momento, fino alla morte, Don Peppi si legò definitivamente al paese di Casola Valsenio.

Poi scoppiò un’altra guerra che dopo alcuni anni non tardò ad investire anche le nostre terre.

Nel micidiale inverno (1944/1945), durante il quale si susseguirono su Casola continui bombardamenti, rappresaglie e scontri tra formazioni belligeranti, i disagi per la gente furono tanti, tanta fu la violenza, tanta la carestia e la povertà.

Don Peppi non esitò a fare della parrocchia il rifugio per tutti i bisognosi, a partire dai malati e dai poveri anziani del ricovero adiacente alla chiesa e per far fronte alle emergenze organizzò nelle cantine della canonica una piccola comunità alla quale si fece carico di assicurare giacigli e cibo.

Si adoperò mettendo molto del proprio e mobilitando tutte le risorse disponibili e recuperabili in quei momenti perché nessuno avesse a soffrire il freddo e la fame e tutti potessero sentirsi fratelli nonostante i gravi disagi.

Anche in quel periodo, con grande coraggio in quanto il pericolo era sempre incombente, egli assolse la Sua missione di pastore non rinunciando mai a svolgere le funzioni religiose, a portare i S. Sacramenti ai malati ed ai morenti, a svolgere i funerali religiosi per i defunti con grande rischio per la sua persona, aiutato in questa meritevole opera di carità da Emilio Dall’Osso che lo accompagnava trainando un carretto per il trasporto delle salme”.

Casola Valsenio in una foto d’epoca

All’interno della piccola comunità rappresentata dalla nostra associazione è presente un testimone di quei giorni di guerra a Casola Valsenio: il nostro socio fondatore Domenico Alvisi. I suoi ricordi su Don Peppi sono molto profondi: il loro incontro, del resto, non fu del tutto… lineare, come dovrebbe essere quello fra un parrocchiano e il suo parroco. Lasciamo a lui la parola per i propri ricordi: “Don Adamo Peppi, parroco a Casola Valsenio (Ravenna) dal 1936 al 1948 è stato cappellano militare durante la Prima guerra mondiale, meritando due medaglie di bronzo. Quando l’ho conosciuto non sapevo di queste onorificenze e il fatto che aveva partecipato alla Grande Guerra non era un evento di grande importanza. Eravamo circondati da reduci e nella mia famiglia tra parenti (in primis mio padre) e amici, ne annoveravamo almeno una ventina. Don Peppi era un sacerdote classico di quei tempi; osservante severo delle tradizioni della Chiesa, era poco alieno ad offrire possibilità di uscire dal seminato. La mia conoscenza diretta con don Peppi avvenne per la prima volta durante le feste di Natale del 1942. Eravamo giunti, con la famiglia, pochi giorni come sfollati per sfuggire ai probabili bombardamenti che avrebbe subito Bologna.  A Casola Valsenio era nato mio padre e in paese avevamo parenti e amici; quindi, mi sentivo un po’ a casa mia. Imparai a conoscere meglio don Peppi quando nel giugno del 1943 mi preparavo per la Cresima e Prima Comunione e lui coadiuvava una suora ad insegnare il catechismo. Tuttavia, il mio rapporto più intenso e in un certo senso più tragico, lo ebbi dopo la prima comunione.  Nei primi mesi del 1943 erano giunti, sfollati da Faenza, dei ragazzi del collegio dei Salesiani. Li guidava don Masper, un rubizzo e alacre bergamasco che oltre alla naturale inclinazione religiosa coltivava, in collegio, un amore appassionato per l’operetta che volle trasferire anche a Casola. L’unico teatro esistente in paese era occupato, quindi come luogo per erigere il teatrino scelse un ampio locale che divideva la chiesa dalla canonica. Don Peppi, che considerava ogni forma di divertimento non consona ai dettami della Chiesa, in un primo momento si oppose fieramente poi dovette cedere. Venne eretto un artigianale palcoscenico e iniziarono le prove delle operette che non erano la “Vedova allegra” ma castigatissime storie. La musica consisteva nell’accompagnamento all’armonium dello stesso don Masper. Ora, per ragioni troppo lunghe da illustrare, un giorno mi trovai a discutere animatamente con don Masper e per sfuggirgli mi rifugiai in chiesa dove, non sapendo come fare per liberarmene, me ne uscii con una serie di parole blasfeme, che indussero quasi alla sincope il buon don Masper che mi lasciò libero. La cosa non era passata inosservata a don Peppi, che convoco immediatamente mia madre (mio padre era a Bologna) e tutti i miei parenti ed in modo particolare monsignor Pietro Poggi che era lo zio di mio padre, anche lui cappellano nella Grande Guerra, fondatore della CRI a Imola, cappellano della MVSN. A lui chiese se fosse opportuno fare venire il Vescovo di Imola per fare riconsacrare la chiesa. C’era altro da pensare e tutto si risolse con un lungo periodo di mie preghiere riparatorio nella chiesa che avevo sconsacrato. Durante il tragico periodo della Linea Gotica, quando il paese era occupato dai tedeschi e sotto i bombardamenti degli Alleati, trasformò i sotterranei della parrocchia in un rifugio per una ottantina di persone che erano rimaste senza casa o erano in zone troppo pericolose. Cercò anche, nel limite del possibile, di sfamarle. Encomiabile fu poi l’attività che svolse per il trasporto dei defunti. Il cimitero si trovava a circa un chilometro dal paese e don Peppi, con l’aiuto di due anziani volontari, caricato il defunto su di un carretto trainato a mano portavano la cassa che veniva accatastata nella piccola Cappelletta. Quando nel novembre del ’44 gli Alleati liberarono Casola, il paese divenne l’immediata retrovia del fronte; con i tedeschi attestati a circa 3 km. In tal modo il cimitero venne a trovarsi in terra di nessuno con la strada perfettamente visibile dal fronte germanico. Don Peppi, questa volta con una bandiera bianca, continuò la sua opera di becchino. Ogni volta che lo vedevamo partire (e fu spesso) a tutti tremava il cuore, ma i tedeschi, forse consapevoli della sua missione, non cercarono mai di colpirlo. Morì nel 1948 e venne sepolto nel cimitero di Casola Valsenio accanto ai loculi dei suoi genitori che lo avevano seguito a Casola. Alcuni anni fa, a suo ricordo, è stata murata una lapide nel famedio presente nel cimitero”.

La rocca in vetta a Monte Battaglia, vicino a Casola Valsenio, teatro di terribili scontri durante la Seconda guerra mondiale

Il Secondo Dopoguerra fu, nuovamente, un periodo di grande intensità e laboriosità per Don Peppi, attivissimo per la sua comunità così colpita dal conflitto e dalla presenza della Linea Gotica vicino all’abitato per tanti mesi. Basti ricordare che nel territorio di Casola Valsenio è presente un rilievo montuoso, Monte Battaglia, che fu teatro di scontri durissimi durante la guerra.

Come abbiamo visto, ancora una volta, Don Peppi aveva dimostrato, anche anni dopo la sua ultima esperienza di guerra, una fermezza sotto il fuoco davvero notevole, come se, oramai, stare sotto le bombe e le raffiche delle mitragliatrici fosse per lui una consolidata abitudine.

La sua “combattività” fu tutto al servizio della sua comunità. La guerra non era ancora finita che Don Peppi già si proiettava nel futuro. Fu così che prese carta e penna e scrisse il 20 marzo 1945 al cardinale Elia Della Costa di Firenze che si trovava, fortuna sua, nella parte “liberata” del paese, mentre Casola era ancora sulla linea del fuoco. La sua è una lettera che dimostra, in pieno, la sua personalità: “Eminenza Reverendissima, perdonatemi se oso importunare presentandomi a Voi nella persona del sacerdote salesiano, professor don Masper, dell’Istituto di Faenza, sfollato a Casola Valsenio. Sono parroco a Casola Valsenio, paese della diocesi di Imola, a tre o quattro chilometri dalla prima linea. Dal novembre u.s. la frontiera divide la nostra diocesi. Non posso quindi comunicare con la Curia e con il mio vescovo e vado avanti attendendomi alle disposizioni ricevute da lui in precedenza. Si lotta e si soffre da oltre sei mesi. La mia popolazione che, per gli sfollati concentrati a Casola Valsenio dalle parrocchie limitrofe è enormemente aumentata (da duemila a seimila circa) è rimasta spogliata di tutto. Case crollate o sinistrate; letti, coperte, materassi, mobili, arredi di casa asportati o bruciati. A tanti non sono rimasti che i miseri abiti che avevano allorché si rifugiarono ai monti e mancano assolutamente di scarpe. Destano compassione, in modo speciale i fanciulli, i vecchi, gli ammalati. In questa dolorosa situazione ho fatto quanto ho potuto di meglio per lenire dolori e dare conforti. La mia casa e la mia chiesa che per vero miracolo, pur essendo gravemente danneggiata, è rimasta in piedi, è diventata veramente la casa di tutti, e in essa molti e molte cose, con l’aiuto di Dio, si sono potuti salvare. Mi sono rivolto alla carità del Papa per avere aiuti per la mia popolazione, ma la mia richiesta non è forse arrivata a destinazione. Ho pensato allora di rivolgermi a Vostra Eminenza Reverendissima a mezzo del latore. L’inesauribile carità del Papa arriva un po’ a tutti i paesi liberati e arriverà senza dubbio anche a Casola Valsenio. Vostra Eminenza Reverendissima interceda per noi. Più che di pane la mia popolazione abbisogna di minestre o riso, di olio o grassi, di zucchero, di sale, di condimenti, di abiti, scarpe, indumenti, medicinali. Il comunismo si è messo a lavorare a tutta forza in mezzo al nostro popolo. La carità lo terrà legato a noi nella fede e nell’amore a Gesù Cristo. Il latore si atterrà alle disposizioni e ai consigli di Vostra Eminenza Reverendissima e mi dirà anche come debbo comportarmi con la funzione di rinnovazione dell’acqua battesimale nel prossimo sabato santo, non potendo avere in tempo debito per le difficoltà di viaggio, gli olii consacrati nel giovedì santo. Invoco dal Signore le grazie più belle per Vostra Eminenza e per le anime affidate alle Vostre cure spirituali e ringrazio infinitamente. Di Vostra Eminenza Reverendissima, devotissimo e obbligatissimo Don Adamo Peppi”.

Don Peppi in abito talare

Don Peppi non si perse d’animo. Prima di tutto volle che si ristabilisse il dialogo fra le persone che le vicende politiche dell’epoca avevano reso aspro e difficoltoso. Fece della Parrocchia il fulcro della vita del Paese, il luogo dove comporre i dissidi, dove stemperare i rancori, dove far prevalere alla ritorsione la pratica del perdono. Volle in sostanza prima di tutto la ricostruzione delle coscienze. In quel tempo forte e triste in cui occorreva riprendere una vita normale, fu infaticabile sia nel ripristinare tutto l’ambiente parrocchiale che nel riparare i danni bellici, ma soprattutto si dedicò alla educazione dei ragazzi e dei giovani. Seguì direttamente le lezioni di catechismo, riprese l’insegnamento della religione nella scuola elementare, incoraggiò e sostenne, anche economicamente, lo sviluppo della Scuola Media delle Suore Dorotee. Fece tutto ciò con la consapevolezza che l’educazione ed il sapere sarebbero state le leve per il riscatto della persona. Mobilitando il Centro Italiano Femminile e l’Istituto Santa Dorotea, assunse iniziative per il lavoro, in particolare delle donne. Assieme alle Istituzioni, si fece carico, anche direttamente, di dare lavoro ai capi famiglia. Anche per questo suo instancabile lavoro e per il riemergere di malattie trascurate durante il periodo militare, la sua salute cominciò a dare segni di cedimento, finché il 12 agosto 1948, assistito dai famigliari e dai fedeli, cessò di vivere suscitando grande rimpianto tra tutta la popolazione.

Questo breve articolo, arricchito di materiali, è frutto di una ricerca nata quasi casualmente. Siamo contenti di aver ridato colore, voce e dignità ad una storia quasi dimenticata nelle sue variegate sfaccettature: la storia di un cappellano militare certamente non comune e di un parroco che si prodigò fortemente per la sua comunità, così duramente colpita dalla guerra sull’uscio di casa.

Si ringrazia per la collaborazione alla realizzazione dell’articolo Beppe Sangiorgi che ha fornito materiale bibliografico e fotografico

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