Finalmente Don Saltalupo ha un nome e un volto!
Nel 2016 il Comitato Memorie di Pietra della Grande Guerra ha rieditato il libro “L’ora K”, una raccolta di storie brevi dal fronte del Carso: i ricordi di guerra del tenente bolognese Arnaldo Calori del 74° reggimento fanteria della brigata Lombardia.
Il libro, oggi esaurito, funse da veicolo per la raccolta fondi per il restauro della grande lapide dedicata ai caduti della brigata Emilia, in rovina, presente all’interno dell’ex cimitero di guerra italiano “Maurizio Piscicelli” di Kamno, sotto il monte Mrzli, nella valle dell’Isonzo.
Calori, con le sue pennellate di colore, descrive i suoi uomini e i suoi commilitoni, protagonisti di episodi di guerra, umanità e sofferenza incontrati nei lunghi mesi di militanza nella brigata dalle mostrine bianco-blu. Nei racconti di Calori il comune denominatore è il Carso, divoratore di uomini, con le sue doline, la sete, gli asdsalti…
Calori fa una scelta narrativa piuttosto singolare che ha reso, per certi versi, difficile riconoscere molti dei suoi compagni: non riporta nessun nome. Tutti sono citati o con un soprannome, Ciccio, Bombarda, o con le iniziali dei nomi, il maggiore W., il soldato Di R., il soldato M.: con un “pietoso” anonimato Calori vuole mettere tutti sullo stesso piano. La guerra aveva reso tutti vittime. Il suo libro è difatti uno di quelli “veri”, sinceri: l’autore non scade mai nell’autocelebrazione, nella pomposità e nella retorica.
Fra i personaggi di cui Calori racconta la storia c’è Don Saltalupo. Questo non era ovviamente il suo nome. Lui, come gli altri, finì con l’avere il nome “nascosto”. L’edizione del libro uscì con questa mancanza. Molti degli anonimi uomini citati dal nostro autore sono stati riconosciuti. Spesso si è riusciti a dare loro un nome e addirittura un volto. Così non fu per Don Saltalupo. Purtroppo le ricerche per riconoscerlo furono vane.
Solo ora, a distanza di sei anni da quella riedizione e di quelle ricerche possiamo dire che anche Don Saltalupo, finalmente, ha un nome e addirittura un volto.
Il capitolo dedicato a lui fu uno di quelli più letti e citati nelle varie presentazioni del libro in giro per l’Italia che furono fatte. Fu addirittura incluso nel breve “spettacolo teatrale” adattato sul testo di Calori realizzato dal regista Lorenzo Giossi (e recitato da Lorenzo Giossi stesso, Luca Mauli e Vittorio Tovoli) per alcune serate di presentazione davvero particolari e di successo.
La vicenda umana di questo giovane cappellano militare avevano colpito tutti: unisce, del resto, umanità, ironia ma anche una vicenda militare fuori dal comune.
Vale la pena riportare questo capitolo per intero.
“Il sottotenente Saltalupo, anzi don Saltalupo, come lo chiamavamo noi, sottotenenti e tenenti, alterando il suo vero cognome che più non rammento.
Sacerdote senza cura d’anime, era stato richiamato ed inviato al fronte insieme alla sua classe.
Saltalupo, benché un po’ infagottato, portava con una certa disinvoltura la sua divisa e non stava poi male, vestito in modo così diverso dal solito, col suo faccione ilare e sereno, semicoperto dagli occhiali dalle lenti grossissime.
Era miope come un tedesco e casto come un fanciullone.
Alla mensa il più chiassoso, il più allegro, quasi sempre il primo ad incominciare lo scherzo, sempre lecito.
Quando aveva bevuto giungeva persino a fare il solletico ai colleghi che gli sedevano vicino.
Quel buon giuggiolone di Saltalupo, nonostante il suo “don”, non si peritava di ascoltare i discorsi più scabrosi, anzi faceva finta di capirli, strizzava l’occhio e sbottava, a sproposito, nelle più matte risate.
– Ma tu, Saltalupo, perché ridi? Che ne sai di queste cose?
Saltalupo se ne aveva quasi a male:
– Che cosa credete che sia proprio un fesso?
– Un fesso proprio no, ma scommettiamo che non hai mai visto una donna nuda.
– Io donne nude ne avrò viste cento, mille.
Allora, con infernale accompagnamento, si intonava il coro famoso:
quell’uom dal fiero aspetto
non dica, non dica fregnacce…
Finito il coro, qualcuno azzardava:
E perché no?… don Saltalupo può aver benissimo ragione; chissà quante penitenti…
– Ohibò! – urlava Saltalupo, – non facciamo insinuazioni.
E vergognoso del solo sospetto, diventava rosso come un peperone e taciturno.
Una sera lo volemmo mettere alla prova.
Dopo mensa, d’accordo con gli ufficiali della sezione mitragliatrici, facemmo preparare due carrette e, in dici o dodici, via per Tapogliano o Turriaco che fosse.
Correvamo per la strada che fiancheggia il canale Dottori, su cui scivolava un tranquillo faccione di luna, ed accompagnavamo i sobbalzi delle carrette coi canti più allegri e stonati.
Saltalupo era della partita, ma per convincerlo avemmo un gran da fare.
A tutta prima aveva accettato con entusiasmo, poi s’era messo a tirar fuori certe difficoltà; alle nostre baje s’era deciso di venire, poi, al momento di salire sulla carretta stava soprapensiero,… e così, a forza di baje, di pentimenti e di rassegnazioni, preso il coraggio a due mani, tirò un gran sospirone e salì sulla carretta borbottando:
– Bè, per una volta tanto, facciamo anche questa!
Durante il cammino don Saltalupo restò silenzioso.
Chissà che cosa dovette passare in quella povera anima semplice e tormentata, nella mezz’ora di viaggio.
Giunti a Tapogliano, scendemmo di fronte alla casa ben nota dove gli ufficiali dei reparti a riposo affollavano il salotto di cattivo gusto, in attesa di rivedere finalmente una donna.
Entrammo.
Saltalupo entrò con noi, mesto e borbottante fra sé. Forse pregava.
Appena entrati, si sedé subito nell’angolo più riposto e respingeva, con la mano aperta, le donne che tentavamo gettargli fra le braccia; ma non parlava.
Le sue labbra si muovevano appena e forse pronunziavano la grande parola: “Vade retro Satana”.
Soltanto aprì bocca, anzi urlò, quando, afferratolo in quattro o cinque, lo gettammo a viva forza in una camera dove una delle ragazze cercava di attirarlo a sé, con le più buffe e sguaiate moine.
Urlò:
– Lasciatemi, per l’amor di Dio! Sono un buon sacerdote.
La sua voce strozzata aveva spento le nostre risa, sicché lo lasciammo.
Lo vedemmo buttarsi in ginocchio, col capo in terra e pregare,
La ragazza restò come di sasso e si fece il segno della croce.
– Sono un buon sacerdote, ripeteva, ogni tanto, don Saltalupo tra le preghiere.
Era un buon sacerdote davvero, ed io ricordo che nell’azione del Pecinka , dopo due giorni di aspra battaglia, mentre, nascosti fra i sassi, attendevamo dubitosi l’assalto, don Saltalupo si rizzò, d’un tratto, tra le raffiche incalzanti della artiglieria nemica e, con la sua gran voce, benedisse i soldati “in articulo mortis”.
E tutti si levarono come un sol uomo, si scagliarono contro la trincea di fronte, di slancio la conquistarono e, in tal modo, quel giorno, il nostro battaglione faceva prigioniero un battaglione nemico”.
Don Saltalupo non era altri che Don Giovanni Aimerito, originario di Poirino, in provincia di Torino, dove era nato il 10 agosto 1891. Si trattava quindi praticamente di un coetaneo di Calori che era invece della classe 1892. Le sue origini piemontesi avevano fatto sì che fosse destinato come cappellano militare proprio ad una delle brigate piemontesi per eccellenza: la brigata Lombardia che aveva sede, con i propri reggimenti, ad Alba (il 73° fanteria) e a Bra (il 74° fanteria). Don Aimerito fu assegnato come cappellano proprio a quest’ultimo, il 74°, il reggimento di Calori. Il suo Stato di Servizio ci racconta di più di lui: richiamato alle armi già nel 1911, a 20 anni, era stato dichiarato non idoneo. Forse la sua fortissima miopia, citata anche da Calori, lo aveva reso non adatto alla vita militare. Nel 1915 non si badava però più a queste sottigliezze che rendevano inidonei gli uomini al servizio. La coda di Minosse girò anche per Don Aimerito: inizialmente fu assegnato a alla 1° compagnia di sanità e poi al 166esimo ospedale da campo. L’8 settembre 1916 fu invece assegnato al 74°. Bastarono quindi poche settimane per Don Aimerito per entrare in confidenza con i suoi colleghi e dare vita, ad esempio, ad episodi gustosi come quello del bordello di Turriaco. In meno di due mesi, inoltre, Don Aimerito entrò anche nel pieno del suo nuovo ruolo di cappellano militare di un reparto combattente, tanto che, come citato da Calori, fu tra i protagonisti dell’azione del Pecinka che si svolse fra il 1° e il 2 novembre 1916, durante la Nona battaglia dell’Isonzo, la cosiddetta “terza spallata carsica” di Cadorna.
Fa quasi specie vedere come Don Aimerito non fu decorato per quell’episodio.
Don Giovanni rimase nel 74° anche per il resto della sua guerra. Il 6 novembre 1917 rimase prigioniero, con gran parte del suo reparto, in quel di Tramonti, paese friulano non lontano da Tolmezzo, ai piedi delle Alpi Carniche, dove si svolsero duri combattimenti della ritirata di Caporetto fra i reparti austro-tedeschi avanzanti nel cuore della pianura e i reparti italiani che si ritiravano per cercare la salvezza oltre il Tagliamento e poi il Piave. La sua prigionia fu divisa fra i campi di Mauthausen e di Aschach. Il suo rimpatrio avvenne poco dopo l’armistizio, il 13 novembre 1918. Dal suo rientro in Italia al suo congedo, il 1° ottobre 1920, prestò ancora servizio nel vicariato militare presso vari ospedali militari dove ancora erano ricoverato tanti feriti dal fronte: in particolare nell’ospedale militare di riserva di Susa, presso il Regina Margherita di Torino e poi presso il Principe Umberto, sempre nel capoluogo piemontese.

Uomo colto, laureato già nel 1914 in Teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica del Seminario arcivescovile di Torino, passò il resto della sua vita ecclesiastica nel suo Piemonte. Divenne dopo la guerra vicecurato a Buttigliera d’Asti e poi al duomo di Chieri dal 16 giugno 1922. Canonico onorario della Collegiata di Chieri, il 15 giugno 1937. Vicedirettore spirituale del Sanatorio San Luigi in Torino, poi Cappellano a Cabianca-Moncalieri presso le suore del Suffragio dal 1° ottobre 1944. Parroco, dal 18 dicembre 1947, della Madonna della Scala in Cambiano, dove morì il 15 gennaio 1973 ad 81 anni.
In allegato al suo Stato di Servizio c’è anche una sua foto. Risale al 1942. Ritrae quindi un Don Aimerito già maturo, di 51 anni. Possiamo comunque riconoscere e vedere in lui quel Don Saltalupo protagonista del simpatico episodio di Turriaco e dell’azione del Pecinka.
Anche se dopo 6 anni, si può finalmente dire che anche Don Saltalupo ha un nome e un volto. La sua storia ora la conosciamo, ora possiamo finalmente anche… vederlo, alzarsi, fra gli uomini rannicchiati e stesi a terra, fra le pallottole austriache che fischiavano e benedire i suoi soldati “in articulo mortis”, subito prima dei colpi di fischietto degli ufficiali e del grido “Savoia!” che annunciavano l’assalto.