di Giorgio Davi.
Sono nato nel 1943 in un posto di campagna, tanta terra e poche case lontane dal paese. Nelle lunghe sere d’inverno dell’era pre-televisione ci si riuniva con i vicini per fare “filò”, che non erano chiacchiere, ma un modo per ognuno di essere attore e spettatore allo stesso tempo; talvolta si creavano momenti suggestivi. In una di queste occasioni ascoltai i vecchi parlare di un evento accaduto in tempi lontani. Una gran folla era in movimento a piedi o su ogni genere di veicolo, interminabili colonne avevano viaggiato per quasi tutta la notte alla luce di lanterne appese a dei bastoni, molti paesani erano accompagnati dai loro Parroci. Gli uomini adulti avanzavano col passo deciso di chi aveva patito sofferenze di ogni genere senza mai cedere, scortavano le loro bandiere di Mestieri e Associazioni. Seguivano le donne che pur senza ricevere medaglie o Citazioni al Merito avevano patito fatiche, lutti, la Spagnola… Vista l’importanza del momento la nonna ordinò a mio padre (classe 1903) di attaccare il cavallo al biroccio sopra al quale salirono le donne di casa: per mio padre era il suo primo viaggio ma se la cavò seguendo la fila, il nonno aveva preferito restare a casa a custodire le mucche. La stazione era stracolma tanto che si erano formate file lungo i binari tali da formare una catena umana da un orizzonte all’altro; un cortese contadino invitò quei miei parenti per una buona posizione lungo una sua cavedagna.
Mio padre perse altro tempo per procurare l’acqua per il cavallo e per ammirare una Sarolea, la prima motocicletta che vedeva da vicino. Al ritorno fu molto dispiaciuto nel vedere che il brustolinaio aveva già venduto tutte le bandierine tricolori di carta; insolitamente portata a fare spese, la nonna gli comprò due etti di fichi secchi infilati in uno spago come si usava allora.
Sull’Isonzo erano in tanti come qui oggi, chiese una zia, vedova di un disperso, per quale sortilegio centinaia di uomini sparivano nel nulla? Cercò di darsi una risposta ma finì col sentirsi male, una contadina la soccorse con mezzo bicchiere di grappa. La lunga attesa fu ripagata dal maestoso apparire del treno che portava il Milite Ignoto, la folla si inginocchiò, con composto dolore ogni donna gridò un nome, forse del marito, di un figlio o di un fratello. Lui, il Senza Nome, avrebbe portato a Roma il nome di tutti! Si videro le bandiere inchinarsi fino a terra comprese quelle socialiste e anche la bandiera nera con ricamato sopra il galletto rosso di Romagna. Gli strumenti delle bande rimasero muti tanta era l’emozione dei musicanti, il treno passò sotto una pioggia di fiori e andò come sospinto dalla volontà del popolo. Per quattro anni la nonna aveva avuto tre figli al fronte con altri undici parenti, aveva procurato pane e portato conforto ai loro famigliari; insieme a loro aveva patito lutti spaventosi. La nonna non si inchinò: al passaggio del treno mormorò una preghiera e mandò un bacio con la mano e dopo il passaggio fu redarguita per non essersi inchinata. La folla era stupita e consapevole che la Nazione non avrebbe mai più visto nulla di uguale, loro c’erano per vederlo e raccontarlo. Il cupo rullare dei tamburi ritmava il passo per lo sfollamento, la gente si riunì per Comune, per paese e per famiglia.
Una zia disse che su quel treno si doveva mettere anche un Ignoto scelto tra i nemici, chiamare le loro donne e si sarebbe celebrata non la vittoria ma la Pace! La nonna rispose che la pace è solo il tempo che impiegano i figli dei nemici per diventare uomini.
Al ritorno videro che ad un ramo della grande quercia del bivio era appeso un ritratto del Re volutamente appeso a testa in giù, la nonna non disse nulla ma gli austeri tratti del suo viso si illuminarono di un sorriso feroce.
Era una sera d’inverno del 1953, con questa storia si concludeva il “filò”, i vicini già si davano appuntamento per la sera dopo. Non conobbi la nonna: quella sera seppi chi era.
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“Il Milite Ignoto” edizioni Epta, 412 pagine, 140 fotografie.
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