di Fabrizio Pini

Capita spesso, nel mondo del collezionismo, di scambiarsi informazioni o pareri sui vari oggetti trovati tra i banchi dei mercatini o nelle aste specializzate, così un giorno il mio amico, consigliere dell’associazione, grande esperto e collezionista di medaglistica, Stefano, mi telefona chiedendomi se mi poteva interessare una medaglia di bronzo al valore militare visto che un suo conoscente ne cedeva diverse e lui non poteva acquistarle tutte.
Non è proprio il mio settore ma era da tempo che desideravo averne una perché è risaputo che per i soldati era veramente un oggetto molto ambito di cui andare fieri.
Il bello delle medaglie al valore militare non è tanto il pezzo di metallo in sé per sé ma tutto quello che ne consegue, infatti si può trovare solo la medaglia, oppure la stessa contenuta nell’astuccio originale o il top del top, completa anche della pergamena con la motivazione.
Di certo l’aspetto più importante è che sulla medaglia stessa c’è inciso il nome del decorato, la data e il luogo in cui il militare compì l’atto eroico per cui diviene un oggetto da collezionare che ti racconta una storia certa e sempre affascinante.
Incuriosito digito il nome sul web della medaglia proposta e come di incanto cominciano a comparire foto e articoli dedicati a questo personaggio.
Era un bolognese e già questo crea in me una sottile vibrazione, un piccolo legame da concittadino che non può lasciarmi indifferente. Poi continuando le mie ricerche imparo che scrisse un diario di guerra depositato all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, pubblicato addirittura sulle pagine del quotidiano “La Repubblica” in occasione del centenario.
Mi fermo, mi siedo, schiarisco la voce e telefono al mio amico Stefano, gli dico: mi interessa, la compro.
E lui: “Ma non vuoi sapere cosa costa?”
In realtà no, non mi interessava, quando trovi un oggetto che trasuda storia il “vil denaro” non conta: conta il valore storico che rappresenta.
Non mi dilungherò più a decantarla ma vi lascio ai fatti, ovvero alla motivazione scritta sul diploma e alle successive sue pagine del diario, scritte proprio dal Sottotenente Paolo Ciotti che spiega dettagliatamente quello che accadde il 28 giugno del 1916 senza sapere che di lì a poco sarebbe stato decorato proprio per quell’impresa.
La motivazione del diploma
“Sottotenente di complemento del 116° Reggimento Fanteria, Brigata Treviso, incaricato con una grossa pattuglia di collocare e fare brillare, sotto i reticolati nemici, sei tubi di gelatina esplosiva allo scopo di aprire dei varchi per il passaggio delle nostre truppe, con felice esito portava a compimento il mandato ricevuto dimostrando nella sua esecuzione perizia, fermezza e valore personale”. Grafenberg ,quota 206, Podgora, 28 giugno 1916”
Dalle pagine del suo Diario
Un rumore e siamo morti
Imprecai, protestati, perché avendo vegliato fino alle due, ero stanco, ma tutto fu inutile. Riproduco l’ordine che il Comando del Reggimento emanò al Battaglione e per mezzo di quello, dalla 4a Compagnia a me: “Il Comando di linea ha ordinato che stasera due pattuglie della forza di 25 a 25 uomini, comandante da Ufficiali, siano fornite da codesto Battaglione. Una di dette pattuglie punterà al Naso Podgora e l’altra al Grafenberg. Le pattuglie usciranno contemporaneamente dalla trincea alle ore 0,30 precise. Saranno provviste di sei tubi di gelatina ciascuna, che dovranno far brillare nei reticolati nemici. Eseguita la loro missione, rientreranno sollecitamente. Giunte a conveniente distanza nel ritorno, spareranno qualche colpo di pistola Verry a stelle bianche, per semplice avviso a codesto Comando che dovrà subito darne a questo comunicazione telefonica. Questo Comando provvederà così a far aprire il fuoco di artiglieria contro le posizioni nemiche guernite. I tubi di gelatina saranno inviati a codesto Comando. Per norma uguale operazione sarà compiuta anche dal secondo Battaglione coi seguenti direttivi: Sbarramento Osteria quota 160. Firmato Leoncini.”
Ricevetti questo ordine alle 23,35. Era chiaro, preciso e non ammetteva schiarimenti. Io ero libero di scegliere gli uomini. Radunai infatti il mio plotone e chiesi chi volesse venire con me volontario. Si fecero avanti 13 o 14 soldati e gli altri li scelsi io. Erano uomini entusiasti e di provato valore. Un caporale mi rimarrà sempre impresso, perché si fece avanti per primo dicendo: – “Dove va Lei, Signor Tenente, verrò sempre anch’io”. Era questa una attestazione di affetto che mi commosse. Il caporale si chiamava Bazzano ed era già venuto con me all’assalto alla baionetta sul Trentino. A mezzanotte arrivarono i tubi di gelatina lunghi più di due metri ciascuno, per cui, per il trasporto, occorrevano due persone per tubo. Partimmo alle 0,30 precise. Venne anche il mio attendente Colombo, che volle seguirmi ad ogni costo. La notte era molto oscura e faceva un buio pesto. Uscimmo in fila indiana dallo sbocco numero 13, coi fucili carichi, ma in posizione di sicurezza e con baionette innastate. Quando fummo fuori, il cuore cominciò a battere forte e camminavamo adagio adagio, fermandoci ogni tanto per riposare gli uomini che portavano i tubi e per cercare di non sbagliare la strada. Continuammo a camminare lentamente, finché infilammo un sentiero buono e che io già conoscevo per averlo percorso di giorno poco prima, sempre in servizio di pattuglia. C’era lì vicino una vecchia trincea abbandonata dove lasciai dieci uomini per essere sicuro, proseguendo, di non aver sorprese alle spalle. Vi rimase anche il mio attendente Colombo, perché avendo egli già avuto un fratello morto in guerra nel 1915, volli che non si esponesse troppo seguendomi ancora. Io invece proseguii col resto della Pattuglia, non senza aver dato istruzione agli uomini, che in caso di fucileria da parte nostra, rimanessero sul posto e ci proteggessero se avessimo dovuto ripiegare. Quando con gli uomini che portavano i sei tubi, ripresi a strisciare, non so descrivere l’ansia di quei momenti. Come già sapevo, i medi calibri nostri avevano iniziato il fuoco contro la linea nemica, ma qualche colpo era corto per cui correvamo anche il pericolo di essere uccisi dalle nostre artiglierie. Infatti, certi proiettili cadevano vicinissimi o passavano bassi; era un orgasmo continuo. Avevamo pure timore che le vedette austriache, che non sapevamo se fossero collocate fuori o dentro la loro linea, si fossero accorte della nostra presenza e ci tendessero una imboscata. Ma pur proseguimmo fermandoci ogni tanto dentro le buche di granate, talune di queste enormi e che incontravamo di frequente.
Finalmente giungemmo in vista dei primi reticolati nemici, che erano formati in gran parte da cavalli di frisia. C’era silenzio, le vedette austriache dovevano essere in trincea perché restammo in ascolto un po’ di tempo senza sentire rumore. Ci decidemmo infine di compiere l’operazione che avrebbe potuto procurarci la morte poco dopo. Strisciando sul terreno come rettili, deponemmo i sei tubi in due gruppi di tre sotto i reticolati, legandoli fra loro. Indi il caporale Bazzano, poiché tutti eravamo titubanti prima di accenderli, si rivolse a me dicendo: – “Signor Tenente, se Lei mi promette di non muoversi e di assistermi nel caso dovesse succedermi qualche disgrazia, li accendo io.” Quella frase poteva risparmiarsela, perché eravamo lì apposta per soccorrerci a vicenda, ma in certi momenti, che possono essere anche gli ultimi della vita di un uomo, tutto si perdona. E il caporale Bazzano andò avanti e noi rimanemmo a qualche metro indietro, stesi dentro le escavazioni fatte dalle granate. Il Bazzano si raggomitolò, e protetto dalla mantellina che l’avvolgeva, accese una sigaretta. L’operazione preliminare si svolse bene perché la luce non fu vista. Con la sigaretta diede fuoco alla miccia, indi si ritirò gettandosi a terra dove ero io. Attendemmo con un’ansia indicibile; ed io pensai subito alla mia possibile imminente morte su quelle zolle dove ero appiattito, su quel tratto di terreno occupato dal nemico e irto di reticolati che intravedevo nella chiara notte stellata.
Dopo alcuni secondi, un’esplosione formidabile seguita dal lancio di palletti, di filo di ferro, di sassi ecc., ci fece sussultare. Gli austriaci dovettero rimanere sorpresi, perché non aprirono subito il fuoco, ma noi invece udimmo, dopo circa una ventina di secondi, uno squillo di tromba (l’allarme nemico) e subito cominciò da parte del nemico un intenso fuoco di fucileria. Eravamo in orgasmo e non ostante la pioggia dei rottami che in seguito all’esplosione ancora continuava, e la fucileria che diveniva sempre più intensa, poco prudentemente ci alzammo, e pur di uscire da quella zona di morte, ci demmo a correre come pazzi giù per la china. Fu un’imprudenza che ci poteva costar cara, ma fortunatamente siccome eravamo in discesa e la trincea nemica rimaneva sul cocuzzolo, le pallottole passavano alte fischiando lugubremente e rabbiose, sfondando gli alberi che lasciavano cadere le foglie e i ramoscelli su di noi. Se avessimo conservato il sangue freddo, avremmo dovuto rimanere supini sul terreno senza fiatare, ma come ragionare in quell’istante? E se il nemico fosse uscito dalla trincea, inferocito? Si sarebbe certamente vendicato, facendo orribile scempio di noi. Meglio andar via, ora che la missione era compiuta, correre verso le nostre linee! Giunti che fummo alla trincea ove avevo lasciato i dieci uomini di protezione, ci contammo. Ne mancava qualcuno, che poco dopo arrivò. Il nemico aveva cessato il fuoco. Io sparai qualche colpo con la pista Very, a stelle bianche (come segnale che l’operazione era riuscita) e allora la nostra artiglieria aprì un fuoco d’inferno sul Grafenberg. Poveri austriaci! Quella notte dovettero passarla molto male e con perdite, se, come tendeva il nostro scopo, guernivano la trincea con truppe in seguito all’allarme. Noi eravamo contenti, intimamente soddisfatti di essere riusciti a compiere una operazione che gli altri, precedentemente, non erano stati capaci.
Rientrammo nelle nostre linee verso le 4, mentre albeggiava.
Paolo Ciotti nacque a Bologna il 3 maggio 1894 e morì sempre a Bologna il 28 febbraio 1973.